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Fu una provocazione o un’intuizione geniale? Non lo sapremo mai, ma io sono sicuro che sarebbe stato un successo.

Era il 1987, Bernie Ecclestone aveva da poco venduto la Brabham all’Alfa Romeo, e acquisito il controllo (di fatto) della Formula Uno, ma non era ancora appagato. Il vulcanico uomo di affari inglese ipotizzò un nuovo campionato il cui regolamento fece brillare gli occhi degli ingegneri impiegati in ogni azienda automobilistica: il Campionato Production Car. Le auto ammesse alle gare avrebbero dovuto avere un peso non inferiore a 750 kg, propulsori aspirati di 3500 cc con un massimo di 12 cilindri e la carrozzeria che ricordasse nelle forme una berlina prodotta in serie in almeno 25000 esemplari.
Basta, tutto qui.
Tutto il resto era permesso!
Riuscite ad immaginare gruppi di ingegneri commossi che brindano davanti al loro tavolo da disegno, pronti a dare sfogo ai loro sogni più sfrenati?

Passata la commozione, fu immediatamente chiaro che si trattava di un’ipotesi irrealizzabile, in prima battuta un campionato del genere avrebbe seriamente compromesso la visibilità e il prestigio della Formula Uno, già intaccata dalla fine dei pericolosi motori turbo, e poi nessuna casa automobilistica avrebbe retto investimenti per un campionato con quel regolamento.
O forse no…

Nel 1985 l’Alfa Romeo partecipò per l’ultima volta con un’auto ufficiale al campionato del mondo di Formula Uno. La decisione di farla finita fu presa come somma di vari fattori, tra i quali i deludenti risultati per un marchio così glorioso, 0 punti mondiali e auto al traguardo in sole 5 gare fu il bottino dell’ultimo campionato. Ma la casa di Arese aveva già un piano per un rientro graduale nel Circus. Nel 1986 avviò lo studio di un motore da fornire alla Ligier per l’anno successivo. Il progetto fu affidato all’ingegner Pino D’agostino: il motore a 5 cilindri per bancata con un angolo di 72° aveva una cilindrata di 3500cc e sviluppava 620cv a 13300 giri. Sarebbe stato il primo motore V10 della storia della F1, ma purtroppo non percorse nemmeno un metro in pista, perché la recente acquisizione dell’Alfa Romeo da parte del gruppo FIAT fece decadere tutti gli accordi precedenti. Tra l’altro la casa di Torino già portava in pista la Ferrari e non avrebbe avuto senso schierare due team avversari nella massima serie.

Il motore però era pronto ed era molto promettente, allora perché non provare a realizzare un’auto per la serie ProCar? In fondo se il campionato fosse partito sul serio l’Alfa si sarebbe trovata con un’auto già pronta. E così fu scelta la silhouette della 164 per ospitare il V10. L’auto era praticamente una F1: il telaio era monoscocca in carbonio e le sospensioni erano del tipo push-rod. La carrozzeria riprendeva la linea della berlina disegnata da Pininfarina ma era in pratica composta da tre sezioni: l’abitacolo e due grossi gusci che coprivano il frontale e il motore montato al posto dei sedili posteriori, ad un occhio superficiale sarebbe sembrata una vera 164 pesantemente elaborata da un Tuner.
L’auto fece solo un’uscita ufficiale, durante il Gran Premio di Monza del 1988, in cui Riccardo Patrese ebbe l’occasione di percorrere alcuni giri sotto gli sguardi allibiti dei tifosi presenti.

La storia della 164 ProCar finì lì, il progetto venne abbandonato perché il campionato Production Car non ebbe mai inizio e l’auto venne portata solo in alcuni raduni prima di finire nei depositi del museo di Arese.

Nel 1996 La Ferrari scese in pista con il suo primo motore V10 e tra i responsabili del progetto c’era proprio Pino D’Agostino. Naturalmente il motore Ferrari era diverso da quello della 164 ProCar, ma ci piace pensare che l’ingegnere abbia portato sul motore di Maranello un po’ dell’anima di quello Alfa Romeo, come per concedergli una seconda possibilità.

Grazie a Sport Car Leends per le immagini