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Arriva, per ogni sportivo che si rispetti, il momento di guardarsi alle spalle e stilare un bilancio della propria carriera. Fernando Alonso è stato a lungo uno dei migliori piloti in circolazione, forse non il più completo, ma senza dubbio il miglior “animale da gara” che il Circus abbia visto negli ultimi 25 anni. Mai dominante in qualifica, ma semplicemente perfetto dal momento in cui lo spegnimento delle cinque luci rosse segnava l’apertura delle ostilità in pista. Sono diversi gli episodi che, nel corso della sua carriera hanno contribuito a costruire questa fama, ma particolarmente significativo fu quello del 2006 a Shanghai. Mancavano 19 giri al termine del GP di Cina, decisivo nella lotta per il Mondiale con Schumacher, quando il muretto lo chiamò ai box per l’ultimo pit-stop. L’altalena prestazionale Bridgestone-Michelin, favorita dai continui rovesci climatici, avrebbe messo a dura prova anche la tenuta nervosa del miglior cecchino della storia e infatti si verificò un problema di fissaggio sulla posteriore destra che mandò in panico gli uomini del team Renault, con l’addetto al cric posteriore che abbassò la monoposto e l’addetto al lollipop che alzò il cartello nonostante i meccanici nom avessero ancora completato la manovra. Se l’asturiano avesse mollato la frizione sarebbe successo un disastro che, con ogni probabilità avrebbe posto fine alla sua gara, invece, nella sorpresa generale, la sua R26 rimase immobile. Il replay mostrò chiaramente il casco leggermente piegato verso destra con lo sguardo proteso verso lo specchietto: l’innata capacità di leggere ogni fase nel migliore dei modi aveva consentito ad Alonso di osservare il lavoro dei meccanici e, essendosi reso conto del problema, era stato in grado di ignorare il segnale di ripartenza aspettando che la ruota venisse fissata. Alla fine dei quella gara ottenne la piazza d’onore alle spalle della Ferrari del tedesco, risultato che a fine anno gli permise di laurearsi Campione del Mondo per il secondo anno consecutivo.

A distanza di diversi anni quella stagione può essere ragionevolmente considerata lo spartiacque della sua carriera. Fernando decise di abbandonare la squadra che lo aveva reso grande per seguire il canto delle sirene che rispondevano ai nomi altisonanti di McLaren e Mercedes, finendo per cedere alla corte serrata di Ron Dennis. Forte di due titoli mondiali ed eliminata la concorrenza di Schumacher che alla fine del 2006 aveva deciso di appendere il casco al chiodo, i favori del pronostico erano tutti dalla sua parte. Fernando incarnava lo spirito del nuovo corso: giovane, estremamente sicuro di sé e con l’affetto di un intero Paese che si era improvvisamente appassionato ad una categoria che fino a quel momento era stata considerata un lontano partente del Motomondiale ma con due ruote di troppo. Proprio quel clima di estrema fiducia finì invece per rivelarsi un boomerang tremendo. Abituato alla comoda convivenza con Fisichella ed al rapporto quasi familiare con Briatore, lo spagnolo entrò subito in conflitto con la dirigenza del team di Woking, colpevole, a suo dire, di non aver imposto una precisa gerarchia stante il sorprendente livello di competitività, mostrato dal debuttante Lewis Hamilton. Faide interne, ripicche e burrascosi litigi, culminati con l’episodio di Budapest, dove Alonso mise in scena una delle performance più controverse della sua vita agonistica, bloccando il compagno ai box e impedendogli di migliorare il suo tempo. Tra i due litganti, si sa, il terzo gode, e infatti a laurearsi campione fu Kimi Raikkonen che regalò alla Ferrari il suo ultimo titolo Mondiale Piloti. Da quel momento la carriera di Alonso si è arenata nella spasmodica ricerca del terzo titolo, con una serie infinita di fallimenti conditi da altrettante accuse di responsabilità nei confronti del team o del fornitore dei motori. Il ritorno in Renault, il sogno infranto Ferrari e la suggestione della Mclaren Honda, con tanto di machiavellico colpo di spugna alla guerra avuta con Ron Dennis anni prima, hanno regalato al pilota di Oviedo alcuni successi, ma soprattutto tanta frustrazione per la reiterata condizione di trovarsi sistematicamente nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Nando non mai stato un uomo squadra capace di fare da scudo alle carenze di un’organizzazione per risolvere situazioni difficili, semmai ha sempre puntato il dito contro quegli ingranaggi che non erano in grado di assecondare la sua sete di successo, prima Aldo Costa a Maranello, poi Ron Dennis in Mclaren ed infine la Honda, colpevole di avergli rubato il sogno del successo al debutto della Indy500 nello stesso identico modo in cui aveva spento i suoi sogni iridati in F1. In questo contesto di costante epurazione, alla fine ha deciso di epurare anche sé stesso, abbandonando il Circus e cercando fortuna oltre oceano, nel tentativo di conquistare l’ultimo tassello della Triple Crown, dopo aver colto un trionfo quasi scontato alla scorsa 24 Ore di Le Mans, al volante di una delle due auto partite con la ragionevole probabilità di dominare la gara.

L’all-in però non ha pagato, il sogno americano si è rivelato un brutto incubo e Indianapolis ha perso quel dolce gusto del 2016, quando, grazie all’esperienza del Team Andretti, era sembrato tutto facile. Il percorso di avvicinamento alla 500 Miglia del 26 Maggio è stato accompagnato da mille difficoltà, culminate con l’incidente durante le libere, durante il quale Alonso ha potuto assaporare la durezza del muro posto all’esterno della curva 2, ma sono certo che per quanto violenta possa essere stato la botta, abbia avuto un peso specifico irrisorio rispetto a quella che ha gravato sul suo morale, quando al termine del Bump Day ha capito che la sua Dallara Chevrolet, non sarebbe stata tra le 33 al via. L’ennesima delusione di una carriera nel corso della quale il temperamento dell’uomo ha troppo spesso nociuto al talento del campione. Ora si apre la fase della riflessione e delle analisi, ma, forse, senza le “sofferenze” della F1 su cui concentrarsi, sarà meno facile trovare qualche “genio” da sacrificare.

 

(photo: www.indycar.com)