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C’è una sottile linea rossa che divide la fede sportiva dal fanatismo (rosso… giustappunto…). Ce n’è un’altra, verde, che separa il margine tra la tutela degli interessi di un team e la vergogna. Durante questi tre mesi abbondanti di lockdown le due linee si sono spesso intrecciate originando un gomitolo dal colore indefinito, ma comunque più chiaro delle dinamiche che animano la GeS.

La scelta di rinunciare a Vettel sposando la linea verde di Sainz è un diritto sacrosanto della Ferrari che, formalmente, non ha violato alcun accordo: Seb aveva un contratto in scadenza e, come spesso succede, il contratto non è stato rinnovato. Fin qui nulla da obiettare. Ciò che lascia perplessi è la modalità con cui è stata gestita la cosa. Nel corso della pausa invernale il Team Principal, Mattia Binotto, aveva sostenuto ripetutamente le concrete possibilità di prolungamento, identificando nel tedesco la prima scelta della Ferrari, quando, in realtà aveva trovato da tempo un accordo con il pilota della Mclaren. Cinico e spietato, l’ambiente della F1 è fatto anche di questo e un osservatore  occasionale potrebbe ricondurre il tutto ad una pratica in voga ed assunta per consuetudine nelle trattative. In realtà c’è qualcosa che non torna. Binotto, nonostante fosse nelle condizioni di poterlo fare, non si è limitato ad assumere un pilota liberandone un altro, ma ha continuato ad illudere Vettel informandolo soltanto a giochi fatti con una gelida telefonata. Per quale ragione si è arrivati ad un simile trattamento? Vestendo i panni dell’abile demagogo e conoscendo le dinamiche sociologiche che riguardano Maranello, il “prode” Mattia aveva iniziato a prepararsi la via, dando in pasto all’opinione pubblica dettagli utili a mettere in cattiva luce il quattro volte campione del Mondo: pretese economiche inaccettabili e poca inclinazione ad accettare la duttilità dei ruoli nel box, per media e tifosi hanno ben presto assunto la connotazione dello scoglio che impediva alle parti di raggiungere un accordo. Accordo che da parte della Ferrari non era mai stato cercato. Quando Vettel ha capito come si erano messe le cose, ha fatto quello che tutti gli esseri umani avrebbero fatto: ha smesso di incarnare lo spirito del politically correct aziendalista ed ha vuotato il sacco formalizzando la rottura. Un’eventualità che, inspiegabilmente, Binotto non aveva considerato mettendo il Team in imbarazzo: dovendo gestire la cosa nel periodo di lockdown e senza poter giustificare le sue scelte con il rendimento di Vettel, ha fatto nuovamente ricorso alla demagogia populista imboccando gli organi di stampa con la madre di tutte le scuse, ovvero la pandemia. Nelle settimane successive alla rottura Vettel, reo di avere un contratto troppo oneroso per il Team più ricco della F1, è stato dipinto come un’insensibile opportunista, non collaborativo e attaccato al denaro, tanto da non aver sottoscritto la decurtazione di parte dell’ingaggio nel pieno della crisi Covid-19. La macchina del fango ha raccolto il sostegno dell’orda del fanatismo Rosso, sempre pronta ad esaltare o affossare l’uomo che si nasconde sotto il casco con incredibile tempismo.

L’approdo di Seb in Ferrari, così come il suo miglior periodo, è strettamente legato a figure con le quali Binotto era entrato in conflitto, tanto da arrivare alla faida interna alla GeS che portò all’allontanamento di Arrivabene. Non è difficile intuire come la crescita di potere del Team Principal passi necessariamente attraverso l’eliminazione di tutto ciò che possa ostacolarla e le vicende che hanno animato la stagione 2019 hanno palesemente dimostrato come i rapporti tra i due fossero arrivati ai minimi termini. La competenza tecnica del tedesco si è scontrata con la pochezza della SF90 e con la gestione approssimativa di Binotto che non è stato in grado di organizzare uno sviluppo degno di nota ed è stato sopraffatto dall’incedere degli eventi. Amando la Ferrari più di qualsiasi altro pilota del paddock, Seb si è sentito autorizzato a manifestare la sua insofferenza nei confronti della situazione sperando di portare una scossa all’ambiente ma non ha incontrato i favori dei vertici. Camilleri ed Elkann hanno preferito nascondere la testa sotto la sabbia piuttosto che prendere una decisione volta alla riorganizzazione della Gestione Sportiva ed il risultato si è visto in Austria con la Ferrari che per il timore di violare le restrizioni Fia ha portato una vettura inadeguata, allo stesso livello di inefficienza palesato durante i test di Barcellona, mentre, nell’incredulità e sgomento del “prode” Mattia, i team rivali avevano trovato tempo e risorse per portare pezzi nuovi.