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E’ domenica. La sveglia non suona, ma l’aria che si respira è frizzante e gli occhi si aprono alle prime ore del mattino: oggi c’è il GP e le Ferrari sono in prima fila, poi stasera a San Siro c’è Il Derby. Giornata clamorosa: si inizia a menare pugni in aria alle 16.30 con la doppietta delle Rosse e si smette alle 22.45 quando il fischio dell’arbitro sancisce la vittoria dell’Inter.

Quante volte sarà capitato a chi (come il sottoscritto…) condivide la passione per il Cavallino e per la Beneamata, di sognare e poi vivere un periodo di simili soddisfazioni sportive? Da qualche anno a questa parte le sorti delle due compagini hanno vissuto periodi di alterne fortune: i successi di Sebastian Vettel, Kimi Raikkonen e Charles Leclerc nel periodo pre-covid hanno fatto da contraltare ad uno dei consueti periodi interlocutori della squadra più pazza d’Italia, per poi lasciare spazio al trionfo di Lukaku e compagni nel corso dell’ultimo campionato, proprio quando la SF1000 e la SF21 hanno mostrato i limiti di un progetto e di una gestione fallimentari.

Risultati a parte c’è una prospettiva preoccupante che accomuna le recenti scelte aziendali di Via Enzo Ferrari e Viale Liberazione. Il giorno in cui Vettel annunciò di essere stato velatamente accompagnato alla porta da Mattia Binotto per questioni di bilancio e budget cap, tra le tante incognite in chiave futura ce ne fu una che stuzzicò particolarmente il mio immaginario: quale forza commerciale potranno mettere sul piatto 2 piloti come Leclerc e Sainz? Quale impatto sulla porzione di fatturato derivante dal merchandising avrà la scelta di schierare due giovani di belle speranze, ma con soli due successi all’attivo? Parliamoci chiaro: quando i risultati scarseggiano, l’elemento trainante diventa il carisma dell’uomo immagine e non potendo contare su una monoposto all’altezza in Ferrari avrebbero dovuto puntare sulla commerciabilità di quell’immagine. Se il prestigio del Cavallino Rampante inteso come marchio globale, non è mai stato messo in discussione, l’appeal della Gestione Sportiva attraversa da qualche anno una preoccupante crisi d’identità. Nonostante la crescente diffusione di canali che veicolano e commercializzano il merchandising relativo alle monoposto, i fasti dell’epoca in cui Michael Schumacher animava i sogni dei tifosi sono lontani anni luce e, cosa ancor più grave, pare che l’emorragia possa estendersi anche ai contratti di sponsorizzazione che alimentano il budget: dopo una partnership che dura da quasi 50 anni, Philip Morris, title sponsor tramite il marchio MissionWinnow ed a lungo concessionaria degli spazi pubblicitari sulle vetture, sembra essere intenzionata a dire basta. La penuria di risultati e la verginità mediatica dei piloti hanno progressivamente sottratto alla Scuderia Ferrari quell’aura di appetibilità indiscriminata che la rendeva desiderabile per chiunque, trasformando la passione che la circondava in un esercizio per un sempre più ristretto numero di fanatici.

Con l’arrivo della famiglia Zhang in seno alla proprietà, pareva invece che l’Inter avesse intrapreso il definitivo slancio verso il Top, colmando quelle lacune imprenditoriali che l’avevano relegata al ruolo di comprimaria sia all’interno dei confini nazionali che a livello continentale. L’ingaggio di un condottiero come Antonio Conte e di un professionista a tutto tondo come Romelu Lukaku, avevano gettato le basi per una rinascita che cullava come obiettivo finale la consacrazione a livello internazionale. Sfiorato il successo in Europa League lo scorso anno, il progetto aveva raggiunto il primo grande step a maggio con la conquista del 19° Scudetto, al termine di una stagione animata da una progressione dirompente. La seconda stella mai così vicina e la prospettiva di una nuova caccia alla Champions’ League avevano riempito le bocche della dirigenza restituendo nuova linfa all’ambiente: nuovo logo, nuovo inno, nuovo sponsor ed una maglia dalla connotazione avveniristica per lanciare l’Inter nel futuro e massimizzare i ricavi nel periodo di maggior effervescenza dopo le sofferenze del Covid. E’ durato tutto lo spazio di un battito di ciglia: nonostante il prestito oneroso (no, stavolta non si tratta di un calciatore…) ottenuto dal fondo Oaktree, la pressione dei debiti e della crisi finanziaria hanno messo la proprietà nelle condizioni di sacrificare prima Achraf Hakimi e poi lo stesso Lukaku nell’ottica di risanamento del bilancio e così, dopo aver perso anche Antonio Conte, la squadra Campione d’Italia si troverà a difendere il titolo clamorosamente impoverita. Se la partenza dell’esterno marocchino era vista da tutti come un sacrificio doloroso ma tutto sommato digeribile visto l’introito, l’addio del gigante belga è stato un fulmine a ciel sereno che comporterà un tracollo decisamente superiore al guadagno: Lukaku non è solo un centravanti dirompente, era un modello di dedizione e professionalità, un punto di riferimento per lo spogliatoio e un leader carismatico in grado di trascinare quanto un capitano di lungo corso. Aver perso l’artefice principale dello Scudetto innescherà un pericoloso boomerang che vanificherà quanto costruito anche dal punto di vista commerciale. L’ambiente è depresso: invece di attendere con emozione l’avvio della stagione, squadra e tifosi si leccano le ferite in attesa di capire cosa aspettarsi dal futuro.

La decisione di Suning assomiglia a quelle di un curatore fallimentare che si trova nelle condizioni di racimolare il massimo senza una vera e propria strategia di salvaguardia e collocamento degli asset: a questo punto sarebbe sensato esporsi in modo chiaro, evitando di prender in giro gli appassionati. Se è necessario risanare il bilancio è forse il caso di farlo ora, una volta per tutte, quando il valore di alcuni elementi della rosa è ancora al massimo, prima che l’ondata di incertezza che, inevitabilmente, si diffonderà dopo le prime difficoltà sul campo porti al crollo delle valutazioni, sempre che giustamente non siano loro a decidere di abbandonare durante il naufragio.

Nell’epoca in cui il bilancio viene consolidato dal marketing la Scuderia Ferrari e l’Inter hanno scelto di mortificare l’unica fonte di alimentazione del proprio consumo e, se per la Rossa si tratta di una situazione che si trascina da tempo, l’errore commesso da Suning è qualcosa di imperdonabile perché slegato da qualsiasi logica: oggi la società ha un passivo meno importante, ma vale esponenzialmente meno di quello che valeva solo due mesi fa, sotto il profilo finanziario, ma soprattutto umano ed emotivo, aspetti che, è sempre bene ricordare, sono il fine ultimo per il quale gli attori del professionismo sportivo possono pensare di esistere.