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Quando la vidi su una rivista nel 1992 rimasi folgorato. Una linea futuristica, un design morbido e sinuoso, totalmente diversa da qualsiasi altra supercar dell’epoca.
E poi il marchio: una Yamaha.

In quegli anni la casa giapponese dei tre diapason aveva deciso di allargare i suoi orizzonti aggiungendo due ruote alle due di cui si era sempre occupata e decise di progettare un motore da far correre in Formula Uno. Per quasi un decennio la Yamaha fornì i propri propulsori a diversi costruttori: Zakspeed, Brabham, Jordan, Tyrrell e Arrows beneficiarono di motori con diversi frazionamenti: 8, 10 e 12 cilindri.
Proprio quest’ultimo, montato sulle Brabham BT60Y di Brundle e Blundell e sulle Jordan 192 pilotate da Modena e Gugelmin, è il protagonista della nostra storia.

La divisione sportiva della casa giapponese, per intenderci non il dipartimento che partecipa al mtotomondiale dagli anni Settanta, ma quello che disegna e progetta racchette da tennis, decise di affidare alla società inglese Ypsilon Technologies lo sviluppo di una supercar tecnologicamente avanzata, che potesse portare in strada materiali e tecniche usate in Formula Uno.

Come detto, il punto di partenza fu il 12 cilindri siglato OX99, che spingeva le Brabham e le Jordan nei primissimi anni Novanta, ovviamente depotenziato a 400 cv e reso docile per la guida di tutti i giorni. Chi ha avuto la fortuna di guidarla però, afferma che fino ai 6000 giri l’esperienza era esaltante, ma gestibile, dopo di che, tutto si trasformava in un incubo di coppia e potenza scatenate fino ad arrivare all’incredibile limite di 10000 giri,.
il telaio era una monoscocca realizzata con pannelli a nido d’ape in carbonio e alluminio, alla quale era attaccato direttamente il motore che fungeva da struttura portante per cambio e sospensioni posteriori, del tipo pushroad come le anteriori, esattamente come in una monoposto da gara. Effettivamente la visione del telaio nudo tradisce tutta la parentela con le vetture di Formula Uno da cui deriva.

La carrozzeria fu realizzata in alluminio battuto a mano, ed è l’altra componente particolare di tutto il progetto. Le linee morbide partono dal frontale dove un’ala collega i due fari nella parte superiore, creando un’enorme presa d’aria, che in effetti sembra più una grande bocca spalancata. Il flusso aereodinamico si incanala sul muso e poi si separa ai lati dell’abitacolo che emerge come una bolla contenente il posto di guida centrale e poi lascia l’auto sulla coda piuttosto piatta e liscia. L’interno dell’auto appare piuttosto angusto, e il microscopico sedile del passeggero, che a chiamarlo così i sedili dei passeggeri di tutte le altre auto del mondo potrebbero offendersi, è stato posizionato proprio alle spalle del guidatore, forse a richiamare il pedigree motociclistico del marchio.

La OX99-11 avrebbe potuto essere un’auto rivoluzionaria, e per qualche verso lo fu, ma quando il prezzo di vendita fu stimato in 800 mila dollari dell’epoca, al quartier generale della casa giapponese qualcuno deve essere caduto dalla sedia: la cifra era pazzesca per quegli anni, considerato che una Lamborghini Diablo veniva via per poco meno della metà di quei soldi e questo mise una pietra tombale sull’intero progetto che non venne mai più ripreso.

Della OX99-11 rimangono tre prototipi, un telaio nudo da esposizione e tanti rimpianti. I modelli superstiti(uno nero, uno verde scuro e uno Rosso) sono tenuti ancora in ottimo stato dai tre fortunati proprietari che le guidano in vari raduni.